Questo articolo è tratto da un inserto di quattro pagine della Gazzetta dello Sport del 21 gennaio 1989. Si trattava del classico inserto sul calcio femminile che sporadicamente appare un po' su tutti i giornali. La firma t.bot. è presumibilmente da attribuire a Tiziana Bottazzo; ho lasciato una sola "c" a Recagni in quanto all' epoca lo stesso CT scriveva il proprio nome con una sola "c". (Gabe KW)

LA PROTAGONISTA

E la bambina prodigio ora fa la giornalista

A 14 anni in nazionale, a 26 divisa tra gol e Tv: è Carolina Morace

«Vedo la diffidenza negli occhi della gente che mi parla di calcio. Come quando segnai un gol alla Maradona, da 30 metri: lo definirono casuale»

ROMA — «Il piacere di fare quello che più mi diverte, di sentirmi bella, di vincere» spiega Carolina Morace raccontando perché ha scelto di fare del calcio la sua professione, di arrivare a 60 presenze in nazionale con 48 gol, a 110 reti in campionato. E non è davvero finita.
        Un piacere scoperto per caso, coltivato, sollecitato dai genitori e dai fratelli, riconosciuto poi a livello nazionale quando, a soli 14 anni, Carolina ha assaporato l’indipendenza e l’autonomia. Oggi ha 25 anni, un fisico perfetto, la sua famosa cascata di riccioli biondi le incornicia sempre gli occhi
neri, lo sguardo mobile e franco rispecchia un carattere deciso e volitivo.
        Non ammette d’essere andata contro corrente, di aver scelto uno sport inconsueto per una donna. E spiega come sia riuscita a emergere proprio a Venezia, città tradizionalmente conservatrice, sollecitata da un padre siciliano e militare.
«È stato proprio mio padre Ignazio a convincermi che il calcio era lo sport adatto a me. Ci portava a giocare nel campetto dietro la Marina, alla Vigna, al sestiere di Castello, una squadretta divertente, con mio fratello Davide mezzala, io
centravanti, mia sorella Monica in porta. Mio padre mi ha sempre incoraggiata, mi ha spinto a continuare la scalata nel calcio».

Carolina Morace l’anno scorso ha stabilito un record, segnando 40 gol in un campionato trionfale con la Lazio, concluso con 12 punti di vantaggio sulla secondà classificata, il Trani (FotoGiuliani)
                Dalla squadretta di Cabianca al Lido di Venezia in serie C quando aveva appena 12 anni, alla B con lo Spinea, quindi a 14 anni in A con il Belluno, quando è arrivata la prima convocazione in nazionale. Poi due anni a Verona, quindi pendolare fra il Trani e la Lazio, le due squadre più prestigiose, con i 40 gol dello scorso anno quando la Lazio ha vinto lo scudetto imbattuta, distaccando il Trani di 12 punti.
        Risultati che quest’anno sarà impossibile ripetere (almeno in quei termini) anche perché il rifiuto di concedere il Flaminio come campo di gioco ha convinto uno sponsor a desistere, costringendo la società a vendere alcune giocatrici di rilievo. Sono così arrivate le prime sconfitte, che bruciano ancora di più quando viene meno l’abitudine.
        «E a me non piace perdere». Un’affermazione, questa, che le è costata sei mesi di allontanamento dalla nazionale quando, dopo aver preso 3 gol dalla Germania, ne ha dette quattro al c.t. Recagni: «Non me ne pento. Dissi quello che pensavo».
        Una determinazione che rende gol e successi e — fuori campo — giustizia a uno sport ancora incompreso.
        «Lo noto nella gente che viene a vederci, negli uomini che alla fine confessano di aver apprezzato la mia tecnica, l’impegno, la voglia di attaccare anche se si vince 5-0. Lo noto anche in quelli che continuano a far paragoni con il calcio maschile senza rendersi conto che la resistenza, la reazione del fisico non può che essere diversa. Lo vedo anche in quella diffidenza che hanno ancora molti a parlarmi di calcio, come se in quanto donna non potessi capire, conoscere. L’ho visto negli occhi della gente quando ho segnato uno stupendo gol contro la Francia calciando da 30 metri. Un gol alla Maradona, ma il suo sarebbe stato voluto, del mio hanno detto che era casuale».
        Una determinazione che le ha permesso di staccarsi dalla famiglia e da Venezia e scegliere a 18 anni il Trani, che la convince a migliorarsi ancora.
        «Un patrimonio che devo innanzitutto ai miei genitori, poi alla professoressa di lettere al liceo che mi ha sempre stimolato a imparare, a conoscere, a scoprire me stessa, a Sergio Guenza, un allenatore prezioso che mi ha migliorato tecnicamente, che mi ha permesso di debuttare in nazionale, che continua ancora a farmi scoprire difetti».
        Un istinto battagliero che l’ha convinta a iscriversi ripetutamente all’università decisa a puntare anche alla laurea, prima in filosofia, ora in giurisprudenza («Non dico niente, ma ce la farò, magari tutto d’un botto») e a affrontare con successo anche le telecamere di un televisione privata per cui cura due trasmissioni sportive.
«Sono brava? Forse dipende dal fatto che so quali domande stupide bisogna evitare e so anche che la presunzione e la maleducazione di qualche calciatore non vanno prese sul serio. Comunque, nessuna illusione: per fare la giornalista ho ancora tanta strada davanti».
        Una schiettezza che è anche la Venezia che si porta dentro, che le ha fatto scegliere Roma come città da vivere, «perché è solare, raccolta e sincera nonostante sia una metropoli», anche se a Venezia torna per allenarsi col fratello Davide rimasto in Seconda Categoria, con il quale d’estate si diverte nelle partite di calcetto sulla spiaggia, «come ai vecchi tempi, alla pari».
        «Ho fatto quello che mi divertiva. Ho avuto la fortuna di crescere con questo sport, di veder entrare il calcio femminile nella federazione acquistando così maggior prestigio e considerazione.
Anche se dobbiamo ancora avere la possibilità di allenarci di giorno e non alle sei di sera, magari su campi di tutto rispetto che invece ancora vengono concessi ai ragazzini invece che a noi campioni d’Italia, o la stessa pubblicità dei maschi il che significa considerazione, rispetto, apprezzamento per il nostro lavoro. Infine, anche per noi scuole di calcio, miste perché a 12 anni non ci sono ancora differenze, per far crescere questo sport dalle enormi potenzialità».
        Nessuna rivendicazione economica da parte di Carolina, nessun riferimento, se non critico, agli ingaggi miliardari dei maschi: «Con 700 milioni l’anno credo bene che non si diano da fare per correre. E se poi si rompono? Sì, cifre folli che non capisco, che non approvo, che servono soltanto a compromettere lo spettacolo, a rovinare il nostro calcio».
t.      bot.

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