Julie Foudy, assieme a due dirigenti dell'azienda di materiale sportivo, è andata a vedere la regione di Sialkot, al confine con l'India, dove viene prodotto il 90 per cento dei palloni del mondo. Nell'iniziativa c'è anche, evidente ed esplicita, una componente pubblicitaria: sul tema, però, il tempo dei sofismi da puristi è ormai esaurito. L'importante è fare. Proprio in quei giorni la Reebok apre nel Sialkot uno stabilimento nuovo; il sopralluogo dei dirigenti serve a verificare che le condizioni di lavoro siano quelle ordinate dalla casa madre, la presenza di Julie mira a far parlare dell'argomento. Ed allora parliamone.
L'azienda della quale lei è testimonial ha concentrato
per prima ogni fase della lavorazione all'interno della stessa fabbrica:
perché considera questo il vero salto di qualità?
Lo sfruttamento dei minori avviene nei piccoli villaggi della regione.
Dire Terzo Mondo è poco, per descriverli: le condizioni sono di
povertà estrema. In ogni casa, in ogni strada, vedi bambini intenti
a fare la stessa cosa: cucire palloni. Qualcuno porta loro sacchi pieni
di tasselli di cuoio, quelli che compongono la sfera con la quale si gioca,
e loro li attaccano assieme, piagandosi le mani a furia di lavorare con
l'ago. In questo modo l'azienda risparmia su una parte fondamentale del
processo di produzione. Evitando che tale parte esca dalla fabbrica, il
controllo diventa totale: dentro non è consentito il lavoro
a chi non sia maggiorenne.
La maggior parte dei palloni in vendita nell'Occidente reca il marchio
«non prodotto con lavoro minorile». Una menzogna?
Se il controllo non è effettivo, sì. In Pakistan esiste
più di una organizzazione per la tutela dei diritti umani, negli
ultimi anni si sono mosse molto per combattere questo tipo di schiavismo.
È abbastanza logico che anche gli standard salariali ufficiali
non siano di livello occidentale, altrimenti nessuno sceglierebbe l'Asia
come luogo di produzione: ma risparmiare è una cosa, sfruttare un'altra.
Il lavoro ufficiale nel ramo palloni viene considerato, lì,
il meglio cui uno possa aspirare. Dentro alla fabbrica della Reebok c'è
la sede di un'organizzazione umanitaria: controlla ogni giorno che nulla,
se non il prodotto finito, esca. Gli operai impiegati sono 500: 40 dei
loro figli, età compresa fra 10 e 14 anni, stanno seguendo un nostro
programma scolastico a tempo pieno: in questo modo restano lontani dalle
cattive tentazioni anche in assenza dei genitori.
Le mafie del lavoro minorile sono fortissime. E il rumore
che si sta facendo sull'argomento ha già scatenato, da parte loro,
reazioni violente.
Appunto. Durante il mio viaggio non mi sono mai trovata in situazioni
di pericolo. Ma che i limiti al business disturbino parecchia gente
mi sembra evidente.
Lei è stata la prima atleta di nome a interessarsi della questione.
L'ambiente dello sport americano la sta seguendo?
Il tema non è nuovo, i giornali lo trattano da anni. Fino a
qualche tempo fa, però, il campione interpellato se la cavava con
un facile I don't know, non ne so nulla. Ora le cose sono cambiate:
considerato sempre più un eroe moderno, lo sportivo deve al pubblico
non soltanto la prestazione, ma anche un modo etico di interpretare la
vita. Non esiste ancora, purtroppo, una organizzazione dei grandi campioni
in cui portare il problema ottenendo un impegno collettivo, ma i vari sindacati
degli sport americani se ne stanno occupando. Educare le superstar
perché loro, poi, educhino la gente che pende dalle loro labbra:
spero che possa succedere. Anzi, ci credo. Sa una cosa? Dopo essere stata
lì, non riesco più a vedere il pallone con gli stessi occhi
di prima. Usarlo per giocare?