Il viaggio di Julie contro le mafie dei palloni

Articolo tratto dalla Gazzetta dello Sport del 24/3/1998. Qualcuno se ne e` accorto?

L'argomento della lotta allo sfruttamento dei bambini pakistani nella realizzazione dei palloni ci vede coinvolti in prima linea. A questo proposito vi diamo l'opportunita` di leggere l'articolo seguente, che fa pero` riferimento a fatti avvenuti piu` di 1 anno fa. Il fatto poi che Julie Foudy sia anche testimonial Reebok desta qualche perplessita`, ma d'altra parte e` sempre meglio parlare di un problema, sia pure con qualche distinguo, che non parlarne affatto. Anche il titolo appare francamente esagerato, ma dobbiamo ammettere che e` di buon impatto emotivo (l'uso del termine mafia aiuta...)


Capitana della nazionale di calcio americana, Julie Foudy è stata in Pakistan per verificare di persona la lotta allo sfruttamento minorile.

Di molto americano Julie Foudy non ha soltanto il sorriso, ma anche quel modo sbrigativo di affrontare i problemi sul quale, a volte, noi europei ci concediamo qualche snobistica ironia. Sbagliando. L'indignazione per il lavoro-schiavismo minorile non necessita, per scattare, di complessi meccanismi culturali: dovrebbe essere un automatismo morale. Per lei lo è stato, e nel marzo dell'anno scorso, anziché rientrare dall'Australia (dove aveva giocato un'amichevole: è la capitana della nazionale americana di calcio) negli Stati Uniti, ha accettato un invito del suo sponsor, la Reebok, per visitare il Pakistan.

Julie Foudy, assieme a due dirigenti dell'azienda di materiale sportivo, è andata a vedere la regione di Sialkot, al confine con l'India, dove viene prodotto il 90 per cento dei palloni del mondo. Nell'iniziativa c'è anche, evidente ed esplicita, una componente pubblicitaria: sul tema, però, il tempo dei sofismi da puristi è ormai esaurito. L'importante è fare. Proprio in quei giorni la Reebok apre nel Sialkot uno stabilimento nuovo; il sopralluogo dei dirigenti serve a verificare che le condizioni di lavoro siano quelle ordinate dalla casa madre, la presenza di Julie mira a far parlare dell'argomento. Ed allora parliamone.

L'azienda della quale lei è testimonial ha concentrato per prima ogni fase della lavorazione all'interno della stessa fabbrica: perché considera questo il vero salto di qualità?
Lo sfruttamento dei minori avviene nei piccoli villaggi della regione. Dire Terzo Mondo è poco, per descriverli: le condizioni sono di povertà estrema. In ogni casa, in ogni strada, vedi bambini intenti a fare la stessa cosa: cucire palloni. Qualcuno porta loro sacchi pieni di tasselli di cuoio, quelli che compongono la sfera con la quale si gioca, e loro li attaccano assieme, piagandosi le mani a furia di lavorare con l'ago. In questo modo l'azienda risparmia su una parte fondamentale del processo di produzione. Evitando che tale parte esca dalla fabbrica, il controllo diventa totale: dentro non è consentito il lavoro a chi non sia maggiorenne.

La maggior parte dei palloni in vendita nell'Occidente reca il marchio «non prodotto con lavoro minorile». Una menzogna?
Se il controllo non è effettivo, sì. In Pakistan esiste più di una organizzazione per la tutela dei diritti umani, negli ultimi anni si sono mosse molto per combattere questo tipo di schiavismo. È abbastanza logico che anche gli standard salariali ufficiali non siano di livello occidentale, altrimenti nessuno sceglierebbe l'Asia come luogo di produzione: ma risparmiare è una cosa, sfruttare un'altra. Il lavoro ufficiale nel ramo palloni viene considerato, lì, il meglio cui uno possa aspirare. Dentro alla fabbrica della Reebok c'è la sede di un'organizzazione umanitaria: controlla ogni giorno che nulla, se non il prodotto finito, esca. Gli operai impiegati sono 500: 40 dei loro figli, età compresa fra 10 e 14 anni, stanno seguendo un nostro programma scolastico a tempo pieno: in questo modo restano lontani dalle cattive tentazioni anche in assenza dei genitori.

Le mafie del lavoro minorile sono fortissime. E il rumore che si sta facendo sull'argomento ha già scatenato, da parte loro, reazioni violente.
Appunto. Durante il mio viaggio non mi sono mai trovata in situazioni di pericolo. Ma che i limiti al business disturbino parecchia gente mi sembra evidente.

Lei è stata la prima atleta di nome a interessarsi della questione. L'ambiente dello sport americano la sta seguendo?
Il tema non è nuovo, i giornali lo trattano da anni. Fino a qualche tempo fa, però, il campione interpellato se la cavava con un facile I don't know, non ne so nulla. Ora le cose sono cambiate: considerato sempre più un eroe moderno, lo sportivo deve al pubblico non soltanto la prestazione, ma anche un modo etico di interpretare la vita. Non esiste ancora, purtroppo, una organizzazione dei grandi campioni in cui portare il problema ottenendo un impegno collettivo, ma i vari sindacati degli sport americani se ne stanno occupando. Educare le superstar perché loro, poi, educhino la gente che pende dalle loro labbra: spero che possa succedere. Anzi, ci credo. Sa una cosa? Dopo essere stata lì, non riesco più a vedere il pallone con gli stessi occhi di prima. Usarlo per giocare?